Accadde a Famagosta

l’assedio turco ad una fortezza veneziana ed il suo sconvolgente finale
€ 15.00
Autore: Gigi Monello
ISBN 8890237104
Pag. 191


Una guarnigione di seimila uomini asserragliata dentro la città di Famagosta, resiste per dieci mesi all'assedio di centomila Turchi. Nonostante la schiacciante superiorità numerica, convinto di essere soccorso in tempo, il comandante della fortezza, il veneziano Marcantonio Bragadin rifiuta sdegnosamente ogni trattativa e porta avanti la lotta sino all'estremo limite. Logorato da mesi di bombardamento, senza più viveri e munizioni e dopo ben sei assalti nemici respinti, il presidio italiano, ridotto a poche centinaia di larve rannicchiate tra le macerie, si arrende. Ottenute onorevoli condizioni, il Bragadin accetta la capitolazione; l'atto è steso sopra una pergamena bollata d'oro. È il 2 Agosto 1571. Tre giorni dopo il comandante veneziano, seguito da una schiera di ufficiali e soldati, si reca nell'accampamento turco per consegnare le chiavi della città a Lala Mustafà, capo dell'esercito ottomano.
Ricevutili nelle forme della più squisita cavalleria militare, il Pascià muta improvvisamente viso e tono e, presa a pretesto una oscura questione di prigionieri non restituiti, comincia a insolentire il veneziano. La verità si fa ben presto chiara: si violano i patti. I cuori si gelano. È la strage. Tutti gli Italiani vengono legati e subito decapitati; le loro teste ammucchiate davanti alla tenda del Pascià. La soldatesca turca, senza più freni, entra nella città, massacra i difensori, saccheggia le case, oltraggia le donne.Con sadico calcolo, il Bragadin è tenuto in vita per altri undici giorni; poi, una mattina, dopo ore di beffe e percosse in giro per la città, è, con orrendo sistema, messo a morte. Il fatto avviene il 17 Agosto 1571. Mancano 51 giorni a Lepanto.
 

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COMMENTI

Nicola Zotti - dal sito Warfare  1806

Il libro che vi segnalo non è un semplice libro di storia militare. E' qualcosa di più della narrazione dell'assedio dei Veneziani a Famagosta ad opera dei Turchi, conclusosi con la tragica, terribile fine di Marcantonio Bragadin. Qualcosa di cui forse non sono pienamente titolato a parlare. L'Autore, Gigi Monello, ci propone l'avvenimento con una ricchezza di dettagli e un approfondimento delle fonti eccellenti. Ma proprio questa meticolosità e questa profondità si coagulano durante la lettura in un processo di identificazione con la vicenda che mi limito a definire singolare. L'Autore trasmette ai lettori sentimenti che egli per primo sicuramente ha provato: la claustrofobica ossessione degli assediati di Famagosta e l'ineluttabilità del loro destino. Questo duplice processo di immedesimazione non è comune nei libri di storia militare, ed è enfatizzato dallo stile della scrittura di Monello, uno stile lontano dalla scrittura tecnica, uno stile nel quale ogni frase e ogni parola testimoniano ricerca, passione, persino dolore. C'è in questo libro, quindi, anche una dimensione letteraria, oserei dire poetica, giudicare la quale sfugge ai miei mezzi: se non fosse che essa è così intrecciata al racconto storico che non ho potuto fare a meno di riferirvene. E ho come la sensazione che per l'Autore Famagosta sia quello che per Dino Buzzati, ne "Il deserto dei tartari", fu la Fortezza Bastiani: l'occasione e il pretesto per mostrarci un aspetto profondo della condizione umana. Dico questo da "lettore", il mio parere da proprietario di qualche migliaio di libri di storia militare (opinione che forse vi interessa, poco, ma di più) è che il libro merita senza alcun dubbio di stare insieme agli altri, e quindi lo consiglio a quanti vogliono approfondire questo importante episodio della nostra storia. Aggiungo un plauso agli editori, Scepsi e Mattana, che hanno creduto in questo lavoro. E' un plauso che con l'occasione estendo ai tanti editori "di provincia" ai quali la diffusione della nostra storia locale, non solo militare, deve moltissimo.

Renato Borghi  1708

DAL CATALOGO IBS Renato Borghi (22-05-2008) Una vicenda tra le più tragiche della storia di Venezia ove le figure dei comandanti della città Marcantonio Bragadin, Astorre Baglioni e Lorenzo Tiepolo si stagliano come epiche testimonianze di orgoglio, fierezza, senso del dovere. La narrazione, sviluppata in forma di diario e corredata da interessantissime appendici, è tesa, essenziale, in un crescendo drammatico e angosciante. Un libro fondamentale per capire la grandezza della Serenissima e dei suoi Uomini.

Massimiliano de Francesco  1843

Bragadin, l’eroe di Famagosta In un libro la storia dell'assedio turco alla fortezza veneziana di Massimiliano de Francesco 18.10.2007 - La Rivista del mare Cercasi produttore e regista per il libro «Accadde a Famagosta» (Scepsi&Mattana Editori), storia eroica e terribile dell’assedio turco ad una fortezza veneziana di Cipro. Il cagliaritano Gigi Monello, autore del volume, merita una chance cinematografica per due ragioni. Prima: l’evento si presta alla messa in scena, perché vicenda di massacri e tradimenti, di molti contro pochi, di uomini e bestie. Seconda: i 26 capitoli della storia - corredati da un ricamo prezioso di note e da un’appendice con la relazione del nobile bresciano Nestore Martinengo scampato all’eccidio di Famagosta - sono scritti già da sceneggiatore, con descrizioni nette in cui l’odore del sangue e l’onore del guerriero si mischiano all’umore del predatore e all’uso meschino di infamare il tempio dei vinti. «Questa è la storia - si legge nel prologo del libro - di un Veneziano che con onore si arrese e consegnò il suo corpo ad un nemico, che con esso si trastullò facendone scempio». Il suo nome era Marcantonio Bragadin, eroe già richiamato in vita dalla Fallaci ne «La Forza della Ragione» per dimostrare come i turchi siano bravi e perversi ad umiliare lo sconfitto. Siamo nel 1571 e il Mediterraneo è un mare «armato». Dio è annegato e i pirati, d’ogni bandiera e crudeltà, si odiano e si combattono senza esclusione di colpi. Due grandi imperi, Spagna e Turchia, danno su questo mare e si dannano per queste acque; Venezia, padrona negli affari e progressista nei costumi, è l’altra regina dei mari costretta, per ragioni geografiche ed economiche, a convivere con gli altri imperi. Relazioni pericolose, soprattutto perché il mondo ottomano, immane macchina predatoria, ha la guerra nel cuore e non vuole sentire ragioni. Vedi i fatti di Famagosta: serve una conquista al nuovo re Selim II, detto l’Ebbro, un rospo dalla faccia arrostita, salito al trono nel 1566, rozzissimo nei discorsi, pronto a ferire il grosso e grasso Occidente dai vini buoni e dalle donne libere. La cristianissima Cipro è il bersaglio; Lala Mustafà, generale avido di carne, è la belva sciolta. Luglio 1570: l’armata turca sbarca a Cipro: prendono e straziano Nicosia. Ad una ad una, per paura dell’invasore, molte città scelgono la resa. Tutte tranne Famagosta. Qui ci sono due uomini, due spade: il comandante delle milizie Astorre Baglioni e il Rettore della città Marcantonio Bragadin. Qui c’è la volontà di non sottomettersi. Mustafà Pascià manda i suoi cavalieri intorno alle mura della città a mostrare le teste dei trucidati di Nicosia e chiede al veneziano, con una lettera piena di lusinghe e minacce, di consegnare la fortezza. Bragadin manda a dire al turco «che se voleva Famagosta venisse a prenderla». Centomila turchi contro seimila veneziani: non c’è battaglia. Numeri alla mano, Famagosta sarebbe dovuta capitolare in un attimo. Invece, l’assedio durerà dieci mesi. Narra la tradizione che il generale ottomano, all’inizio dell’assedio, forte di un esercito infinito, avrebbe detto che sarebbe bastato che ogni suo soldato avesse lanciato una sola delle proprie scarpe per colmare il fossato di quella città. Non fu così. Sotto quelle mura, Mustafà ci rimase a lungo a covare odio e solo dopo sei assalti la fortezza veneziana si arrese. Bragadin, nel corso di mesi in cui «il sole accecava la vista e armi e armature scottavano a toccarle», aspettò invano le flotte amiche che potevano riequilibrare lo scontro. Il silenzio del mare, la sfiducia e la morte tra gli assediati, i diavoli «affacciati alle mura»: il racconto degli ultimi giorni prima della resa, si fa intenso, avvincente nella sua tragicità. Si avverte, tra macerie e ritirate, che il destino di una parte è segnato e l’autore segue le ore della sconfitta con gli occhi fissi su Bragadin, l’eroe che spera ancora nella svolta e preferirebbe morire in battaglia anziché cedere ai turchi di cui teme la storica slealtà: «V’era una luce chiara e fredda nei suoi occhi un fare febbrile nei suoi gesti, un senso di rassegnazione, un sentore di morte. O, forse, ancora credeva in quel soccorso, nelle cento galee veneziane che d’incanto apparivano davanti a Famagosta? Era stata la sua vita Venezia, tutta la sua vita. Aveva solo quarantatre anni, buona salute, poteva ben sperare di camparne non pochi altri. Ma pareva non importargli. Era nobile, illustre, possidente, con palazzo e moglie di antico casato; aveva figli, affetti, conoscenze, amici, interessi, ambizioni: poteva ben ritenere preferibile vivere ancora. Ma pareva non importargli. La sfida della sua vita era qui a Famagosta, era solo quella grigia fortezza da non cedere, quell’onore da non tradire, quel suo modo di prender la vita, da non disfare». All’alba del primo agosto del 1571, Famagosta alza il drappo bianco. Il giorno dopo, ottenute onorevoli condizioni, Bragadin, pur non avendo partecipato alle discussioni, accetta la capitolazione. Chiusa la guerra, si apre il martirio. Da qui in poi, la storia prende una piega incredibile, le vicende si macchiano di pulp ed esce di scena qualsiasi onta di pietà. Tre giorni dopo l’atto di resa, sottoscritto dalle parti su una pergamena bollata d’oro, il comandante veneziano, con una schiera di soldati e ufficiali, si presenta nell’accampamento turco per consegnare le chiavi della fortezza a Lala Mustafà. Il Pascià, sorridente e vincente, accoglie gli italiani sapendo già cosa farne. Parla con il vinto ma mai domo Bragadin: lo provoca, lo schiaffeggia e viola i patti seminando pretesti. La mattanza: i cristiani vengono decapitati tra il giubilo dei giannizzeri. Colpi secchi, chiome di sangue, irrisioni e urla, l’ebbrezza della vendetta: una terribile piramide di teste eccellenti - tra cui quella del comandante Baglioni - s’alza per la gioia di un eccitato Mustafà. Dopo la strage, i diavoli turchi stuprano Famagosta. Corpi fatti a pezzi e dati in pasto ai cani, case saccheggiate, cattedrale distrutta, sarcofagi aperti e «ossa e miserande mummie incartapecorite estratte, profanate, frantumate». Ma tutto ciò non è niente se si pensa a quello che hanno in mente per il nobile Bragadin. Il fiero e orgogliosissimo veneziano merita una punizione esemplare. Fatto prigioniero, stizzito per aver creduto al turco, subisce torture infamanti: gli vengono tagliate le orecchie ed è morbosamente tenuto in vita fino al 17 agosto, giorno del supplizio finale. Il capitolo XXV è allucinante. Sconsigliato ai deboli di cuore, piacerebbe a registi come Quentin Tarantino e Mel Gibson. Quella dell’eroe di Famagosta è tra le morti più atroci di tutte le storie del mondo. Una morte con il pubblico: solo Dio non c’è per il veneziano. Non c’è mentre Bragadin è costretto, una volta slegato, a riempire, svuotare e riempire ancora una fossa sotto un cielo implacabile per il caldo. Non c’è quando, ogni volta che passa dinanzi al Pascià, deve baciare per terra; non c’è nel momento in cui viene bastonato e poi legato a una tavola e alzato per aria affinché tutti possano vedere qual è la fine del nemico. E non c’è Dio quando nel cuore di una piazza viene stretto a una colonna e lentamente macellato da vivo e spellato con cura da due rinnegati: «La rossa muscolatura del dorso è a vista e una pagina di pelle bianca pende dalle mani del carnefice (…) Erano dieci minuti che gli scorticatori bestiali lavoravano, quando il corpo del Capitano si irrigidì, ebbe come un tremito, e non si intesero più lamenti ma solo un cupo mormorio; quindi si videro le sue membra allentarsi e il capo rovesciarsi all’indietro. Era spirato. Sono le 15 del 17 di Agosto». E morì anche dopo la morte, il Capitano. Dio in quelle ore continuò a non esserci. La scorticatura proseguì: Lala Mustafà ordinò che con la pelle del Bragadin si fabbricasse un fantoccio. Risparmiamo la cruda descrizione della triste opera dei boia e diciamo solo che il pupazzo, una volta finito, fu messo a cavalcioni d’una vacca e, sorretto da due soldati, girò per la città. Il ludibrio della gente e l’allegria del Pascià chiusero la giornata. Questo accadde a Famagosta nel 1571. Così finì Marcantonio Bragadin. Così morì un italiano.

paolo.taioli  1948

Complimenti all'autore, molto dettagliato e ben organizzato. Ottima lettura

ilterzonano  1879

Leggo con vivo interesse

antonio  2133

bel libro, complimenti